Nelle ultime sei settimane, il coronavirus ha agito come catalizzatore di un cambiamento nel modus operandi di molti lavoratori, costringendoli a riadattare la propria quotidianità entro i confini delle mura domestiche. Mentre le imprese si interrogano sulle misure da adottare per il ritorno alla normalità sotto il profilo pratico, c’è un aspetto più sottile, squisitamente culturale, che sembra passare inosservato: come faranno gli imprenditori a forzare il rientro al posto di lavoro, dopo che per settimane si è operato da remoto? Come compenseranno la loro prolungata assenza, i genitori che oggi possono badare ai figli durante l’arco della giornata? Pur essendo evidente che non esiste un modello di lavoro agile funzionale per tutti, un dietrofront sul tema apparirebbe più che mai ingiustificato. Abbandonando l’idea di applicare uno standard, si delinea la prospettiva di un rapporto di lavoro “sartoriale”, co-disegnato dall’azienda e dal lavoratore in virtù dei bisogni specifici di entrambi, in cambio naturalmente di una maggior produttività. Un cambiamento che renderebbe davvero smart il lavoro, andando ad incontrare le necessità di bilanciamento vita-lavoro (o work-life balance) oggi decisamente spostato verso il “work-life blend”- una commistione di momenti lavorativi e privati dai confini sempre più sfumati, con inevitabili ripercussioni negative in entrambi gli ambiti.
Del resto, la possibilità di personalizzare alcune componenti del contratto di lavoro era già emersa con l’avvento dei flexible benefit, ovvero quell’insieme di beni e servizi accessori acquistabili dal lavoratore attraverso la riconversione della retribuzione flessibile. Una forma di compensazione maggiormente “cucita” sulle esigenze personali, che sgrava al contempo le imprese dalla necessità di trovare forme di welfare che soddisfino l’intera popolazione aziendale. In materia di luoghi e tempi di lavoro, queste nuove sfide prevederebbero un aggiornamento ulteriore di quegli istituti contrattuali che, soprattutto oggi, rassicurano dipendenti italiani, ma che al tempo stesso costituiscono barriere per le imprese, costrette a trovare soluzioni a “taglia unica” non sempre efficaci. Il primo passo però resta quello culturale: restituire al concetto di benessere la primaria accezione psicofisica e relazionale, come condizione imprescindibile per la produttività. Una lezione che (forse) solo una pandemia globale può impartirci.
tratto da Il Corriere della Sera del 26 aprile 2020